Novembre 30, 2021
Da Il Manifesto
195 visualizzazioni

Oggi non si parla piĂč di lavoro ma di un’occupazione da rendere piĂč adattabile all’impresa. Tuttavia il concetto di lavoro Ăš piĂč ampio, non dipende dalle statistiche ma dall’esperienza di chi lo fa e possiede una forza lavoro. Una vera riforma del diritto in questo campo dovrebbe lasciare esprimere la libertĂ  e la responsabilitĂ  nei modi in cui viviamo, dentro e oltre le occupazioni precarie. Per questo, oggi, si pensa a uno «statuto del lavoro al di lĂ  dell’impiego». La formula Ăš stata coniata negli anni Novanta dello scorso secolo da Alain Supiot, uno dei giuristi piĂč noti al mondo, professore al CollĂšge de France. La sua necessitĂ  Ăš sempre piĂč attuale. Ne abbiamo ragionato con lui in un’intervista realizzata all’ambasciata francese a Roma dove si trovava per una conferenza con Dominique MĂ©da e Ota De Leonardis.

Alain Supiot

Siamo abituati a pensare che il contratto di lavoro sia la chiave per aprire la porta della cittadinanza. È proprio cosÏ?
Il contratto di lavoro ù un compromesso diffuso in tutti i paesi che stabilisce una permuta: noi ci sottomettiamo in cambio di una certa sicurezza fisica e economica. La sua formula riassume anche quella dello Stato sociale che promette un continuo miglioramento del livello di vita nei limiti dello sfruttamento e dell’oppressione. Da quando la politica l’ha formalizzata ù stata pilotata da indicatori come il prodotto interno lordo o il coefficiente Gini che misura la diseguaglianza.
Il compromesso ha ridotto il perimetro della giustizia sociale a uno scambio tra quantitĂ  di denaro contro quella del tempo e, in piĂč, qualche libertĂ  collettiva, ad esempio quella sindacale. Il contratto di lavoro Ăš stato un mezzo per garantire la continuitĂ  di un equilibrio ma il problema del senso del lavoro Ăš stato evacuato dalla societĂ  e ciĂČ ha provocato conflitti. Oggi siamo obbligati ad affrontare di nuovo questo problema a causa di ciĂČ che correntemente Ăš definito neoliberismo, una politica che ha portato a un cambiamento di paradigma che ho definito «governo attraverso i numeri».

Cosa puĂČ significare?
Questo governo Ăš l’esito del passaggio dall’immaginario della subordinazione a quello della programmazione. Ogni epoca Ăš portatrice di un immaginario che influenza il diritto, la politica, l’arte, la scienza e la rappresentazione globale del mondo. L’invenzione della prospettiva Ăš avvenuta mentre si creava quella della sovranitĂ  ed Ăš continuata nella prima rivoluzione industriale. Nella seconda si Ăš affermato invece un immaginario ispirato alla fisica, fatto di pesi e di misure. Il mondo Ăš stato concepito come un grande orologio. In quello cristiano si installavano orologi nei monumenti di culto. L’orologio rappresentava un ordine del mondo e gli esseri umani sono i re di questo orologio. Il grande orologiaio Ăš Dio. Con le rivoluzioni del XVIII secolo Dio scompare, ma sulla scena Ăš restato l’orologio e l’idea di un mondo sottomesso alle sue leggi meccaniche. Il diritto ha concepito lo Stato in maniera gerarchica. CosĂŹ Ăš stato fatto anche nell’impresa fordista. CiĂČ ha cambiato il rapporto con il lavoro. Il lavoratore Ăš concepito come un meccanismo: Ăš quello mostrato in maniera geniale nei film di Chaplin o di Fritz Lang.

Quale artista ha rappresentato il nuovo immaginario?
Ken Loach quando racconta il lavoratore uberizzato, guidato dagli algoritmi delle piattaforme digitali. PiĂč che leggere articoli, basta vedere un film come Sorry, We Missed You per capire tutto. Questo immaginario cibernetico Ăš l’esito di un processo iniziato dopo la Seconda guerra mondiale. Il mondo non Ăš piĂč visto come un sistema di masse e di energie, ma come macchine che comunicano tra di loro.
Questa organizzazione inizia con lo sviluppo delle nuove tecnologie quando Norbert Wiener parlava di cibernetica e il papa del nuovo management Peter Drucker agiva nello stesso orizzonte. Erano persone piene di buoni sentimenti, grandi menti che pensavano di avere trovato le formule che avrebbero liberato gli esseri umani. Non avrebbero piĂč obbedito a ordini ma realizzato un programma. L’ideale Ăš quello del pilota automatico ed Ăš stato applicato alla biologia o alla genetica. Gli esseri viventi, gli uomini e le macchine sono concepiti come dispositivi informazionali che ricevono dati dall’ambiente e sono capaci di retroagire con un feedback su chi riceve queste informazioni. In questo modo, si realizza un programma.

In questo contesto cosa significa creare uno statuto del lavoro al di là dell’impiego?
Quando ho coniato questa formula era chiaro che il compromesso fordista sulla sicurezza in cambio dell’obbedienza non era piĂč rispettato a causa della politica neoliberale che chiedeva l’obbedienza senza dare in cambio la sicurezza. È il regime in cui viviamo oggi, salvo in paesi come la Cina dove c’ù uno Stato autoritario che compra la pace sociale con il progresso della ricchezza.
È un fordismo su scala imperiale. Nei paesi occidentali la formula «tu ti assoggetti e io ti prometto che domani avrai un lavoro e una casa» non funziona piĂč. CiĂČ che funziona Ăš il management della paura del declassamento. Contro la disoccupazione Ăš stato sperimentato tutto, ma la ricetta applicata Ăš stata la flessibilitĂ  del lavoro che significa: degradiamo il lavoro affinchĂ© tutti possano averne uno pessimo. Bisogna invece riprendere il problema del lavoro, in modo globale e non limitatamente a quello salariato, per disegnare un nuovo statuto per il XXI secolo. Serve uno statuto che permetta la circolazione delle esperienze umane sia sul lavoro che nella sfera non mercificata della vita.

È un’istituzione fondamentale per evitare di continuare a distruggere le relazioni imponendo il fantasma di un lavoro sempre disponibile 24 ore su 24.
In che modo si puĂČ rilanciare il progetto?
Ripartendo dalla condizione dei lavoratori che, durante la pandemia, erano nell’oscuritĂ  ma ci hanno permesso di sopravvivere nei vari lockdown: rider, infermieri, facchini, operai, cassieri o idraulici. In Francia sono stati chiamati «gli ultimi della corvĂ©e». Un’espressione ironica che ha rovesciato quella usata dal presidente Macron, che Ăš un po’ il nostro Tony Blair, quando ha presentato una flat tax sui patrimoni sostenendo che avrebbe liberato le risorse dei «primi della cordata» (premier de cordĂ©e, ndr.) che scalano una montagna. Quelli in prima linea le avrebbero cosĂŹ investite verso il basso. È la solita idea della trickle down economy dei neoliberali, che non ha mai funzionato. Nell’immaginario cibernetico ciĂČ che Ăš valorizzato Ăš il lavoro sui segni, quello che Robert Reich ha chiamato «manipolatori dei simboli», ma non quello di chi lavora a contatto con le persone e le cose che non hanno spazio nell’immaginario.

Salvo poi scoprire che entrambi si trovano nella stessa condizione

Infatti. Tutti oggi si preoccupano dello smart working, ma non di chi vive come un servo in una nuovo feudalesimo economico. Il servaggio Ăš la conseguenza dell’accecamento creato dal governo attraverso i numeri. I lavoratori uberizzati incarnano gli effetti dell’idea di un pilota automatico. Tutte le catene del valore e della produzione ora seguono la logica di un nuovo feudalesimo fatto da una rete di subappalti. Queste sono catene dell’irresponsabilitĂ . Se una fabbrica esplode in Bangladesh l’azienda capofila della rete non si sente coinvolta dalla morte del suo vassallo. È necessario riportare l’industria al suo mestiere principale. Anche nel pubblico va fatto. Un ospedale deve curare, non appaltare le mansioni a persone trattate come «intoccabili», i piĂč deboli, le donne, gli immigrati: individui imprigionati in un mestiere e condannati a farlo per sempre. Sarebbe fondamentale, invece, essere liberi di svolgere piĂč attivitĂ  e non essere obbligati a farne una per sopravvivere.

In Francia molti infermieri stanno lasciando il loro impiego dicendo che non vogliono curare un algoritmo, ma i loro pazienti. È da questo che bisogna liberarsi?
SĂŹ, Ăš una definizione che riassume perfettamente il nostro discorso. Questa logica del lavoro non permette di porci la domanda sul perchĂ© lavoriamo e su cosa lavoriamo. È fondamentale per tutti, anche per i giovani che piĂč di altri si pongono il problema dell’ecologia. Ci troviamo in un mondo in cui nessuno si interroga sul senso dell’azione umana. Bisogna riaprire la negoziazione collettiva oltre il prezzo e il tempo di lavoro.
Oggi il salariato non puĂČ dire nulla sui prodotti inquinanti. Lo stesso datore di lavoro, con la corporate governance, non ha piĂč come obiettivo il prodotto che fabbrica ma il profitto dei suoi finanziatori. Le Big Pharma fanno lo stesso: vendono medicinali inaccessibili alla popolazione mondiale perchĂ© fanno gli interessi degli azionisti. La domanda sul senso dell’azione va reinserita massicciamente nell’attivitĂ  produttiva, nel rapporto con i lavoratori e nel diritto societario.

Bibliografia ragionata

Alain Supiot insegna al CollĂšge de France ed Ăš uno dei giuristi piĂč noti al mondo. Tra i suoi libri in italiano «La sovranitĂ  del limite» (Mimesis), «PerchĂ© lavoro?» (Fondazione Feltrinelli, con R. Sennett e A. Honneth), «Lo spirito di Filadelfia» (Et Al.), «Homo Juridicus» (Bruno Mondadori), «Critica del diritto del lavoro» (Teleconsul). In francese segnaliamo il fondamentale «La gouvernance par les nombres» (Fayard).




Fonte: Ilmanifesto.it