Novembre 21, 2020
Da Fuoridallariserva
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Un saluto a tutti i presenti alla discussione.

La proposta dei compagni della Biblioteca dello Spazio Anarchico “Lunanera” di Cosenza di trovarci a discutere qui, assieme, riguardo l’internazionalismo anarchico e, specificatamente, di cominciare a farlo a partire da una angolazione particolare – ovvero il significato e il valore dell’indipendentismo per l’anarchismo, appunto, in un’ottica internazionalista – mi ha trovato entusiasta. Purtroppo, però, a differenza degli altri compagni della redazione del giornale anarchico Vetriolo, non sono potuto esserci in queste giornate. E qui risiedono le ragioni alla base di questo mio contributo, destinato specificatamente a stimolare ulteriormente questa discussione.

Per affrontare quest’oggi la questione dell’internazionalismo si è deciso di farlo a partire da un articolo, “Indipendentismo e anarchismo”, pubblicato nel n. 4 di Vetriolo. Si tratta di un contributo del compagno anarchico sardo Davide Delogu, da poco trasferito nel carcere di Caltagirone, in Sicilia, e sottoposto a continue restrizioni per via del suo animo rivoltoso e mai domo. Spero che il compagno abbia potuto mandare un contributo da leggere durante l’iniziativa, credo sarebbe molto interessante che la discussione si articoli anche e soprattutto a partire da delle sue parole.

Io, piuttosto che affrontare generalmente la questione dell’internazionalismo anarchico, di cui sono certo avrete modo discutere ampiamente (auspico anche a partire da questo contributo scritto), preferisco innanzitutto trarre spunto dall’articolo del compagno, portando l’attenzione sulla questione sarda, sulla lotta per la liberazione nazionale in Sardegna, sul significato che quest’ultima può assumere (o effettivamente ha, ad oggi) per l’anarchismo e gli anarchici, sul senso effettivo di un indipendentismo anarchico. Le mie saranno semplicemente delle riflessioni “in ordine sparso”, dei pensieri che spero potranno risultare utili per una proficua discussione, dato che gli argomenti in questione chiamano ad un serio e chiaro approfondimento critico, per il momento teorico, e ancor più – per il futuro – di ordine teorico-pratico.

Davide, nel suo articolo, ci invita a riflettere su questioni importanti che credo si polarizzino, in primis, attorno alla questione dell’identità, in questo caso l’identità nazionale. Il compagno, ancor prima di ogni possibile considerazione a carattere teorico, ci invita, secondo me giustamente, ad una riflessione sulla nazionalità, sulle lotte di liberazione nazionale e sull’indipendentismo, questioni che – in un certo senso credo del tutto a ragione – ritiene ben poco considerate e affrontate, ad oggi, presso l’anarchismo internazionale. In tal senso il compagno espone una panoramica di alcune lotte per la liberazione nazionale verificatesi negli ultimi decenni in tutto il mondo, mostrando anche come talvolta dei compagni anarchici vi abbiano preso parte, apportando specialmente il proprio contributo in termini pratici. Una consistente parte dell’articolo è proprio dedicata ad elencare delle vicende storiche relative alla partecipazione di alcuni individui e gruppi anarchici nel contesto delle lotte per la liberazione nazionale e dell’indipendentismo, e tramite tale elenco credo il compagno intenda mostrarci le ragioni per cui, da anarchici, dovremmo approcciarci alla questione nazionale e perlomeno supportare la lotta di questi compagni, di queste popolazioni. In sostanza, ci invita a riflettere su come dovrebbe essere del tutto naturale per noi, anarchici e rivoluzionari, prendere parte a tali contesti di lotta, dato che l’anarchismo sarebbe una forza (anche) anti-colonialista.

Criticamente, la questione mi trova di un altro parere. Io credo che non sia possibile fare un ragionamento a carattere generale su quelle che sono o che dovrebbero essere le ragioni per una nostra partecipazione o non-partecipazione a tali lotte. Va da sé che ognuno le ragioni le trova a partire dalle proprie convinzioni individuali. Quindi non credo sia proprio possibile una adesione dell’anarchismo ad una prospettiva generalmente anti-colonialista o indipendentista. Come scritto nell’articolo “Col cuore e con la testa”, pubblicato sempre nel n. 4 di Vetriolo, da «più di cento anni, dopo la prima guerra mondiale e la nascita dei moderni Stati-nazione borghesi, ogni lotta di liberazione nazionale è sempre stata, suo malgrado, strumentalizzata dai nemici dello Stato contro cui si insorgeva», ovvero da Stati e «potenze imperialiste rivali». E questa è certamente una prima importante considerazione da fare, che solleva parecchie problematiche. Una seconda considerazione, secondo me altrettanto fondamentale, si lega al problema del cosiddetto frontismo, e questo è un fattore, per così dire, più di ordine metodologico. Mi sembra palese come contribuire a creare strutture come “fronti per la liberazione nazionale” o “movimenti di liberazione nazionale” (la distinzione tra questi due può essere molto labile), da parte di anarchici, sia una enorme contraddizione in termini e, appunto, un problema di metodo. Entro tali strutture dovremmo, per forza di cose, venire a patti con delle componenti autoritarie del movimento rivoluzionario (ammesso che, almeno alle nostre latitudini, ne esista uno, dato che ora come ora è l’anarchismo l’unica forza concretamente rivoluzionaria), o pure con indirizzi ideologici che (teoricamente) dovremmo disprezzare, se non combattere.

Gli anarchici rivoluzionari hanno da sempre sostenuto l’autonomia sotto ogni aspetto: autonomia individuale, autonomia nell’autodifesa e nella rappresaglia, autonomia nell’organizzarsi (contro e oltre ogni struttura di sintesi, ogni organizzazione accentratrice) – quindi auto-organizzazione della lotta in ogni suo aspetto. In definitiva, tale convinzione è espressione e conseguenza del nostro ritenere fondamentale un principio, diciamo così, di parcellizzazione, contro uno, ad esso contrario, di accentramento. E questa convinzione si riflette, conseguentemente, nel nostro approccio teorico-pratico alla lotta, sia a carattere più locale che in una prospettiva internazionale. In quest’ottica, tenendo ben presente da parte nostra questo ragionamento inerente la parcellizzazione e l’accentramento, la questione è: noi, che cosa ci faremmo entro un fronte per la liberazione nazionale o una struttura organizzativa simile? Per come la vedo, un bel niente. Contribuiremmo, ancora una volta, più o meno consapevolmente, più o meno in balia di determinate illusioni quantitative, ad essere le pedine in mano alle suddette componenti autoritarie, che faranno di tutto per portare la lotta a coincidere con le proprie fittizie ragioni, che sono nemiche di quelle del movimento reale degli sfruttati.

Proprio per questo motivo, laddove si presentano questioni nazionali per noi di serio interesse, quindi portatrici di una determinata radicalità in senso antiautoritario, credo dovremmo ragionare approfonditamente su tali aspetti, tenendo sempre bene a mente il fattore, per noi fondamentale, di una autonomia d’azione totale e di una critica teorico-pratica senza alcuna moderazione o nascondimento. Per fugare ogni dubbio, sottolineo che ciò non significa rigettare in toto la possibilità di un nostro “intervento” in tali contesti, anzi: essere consapevoli che ogni lotta di liberazione nazionale è, come detto nell’articolo “Col cuore e con la testa”, «strumentalizzabile» da forze statali «rivali» o da componenti autoritarie, non significa rinunciare ad ogni nostra possibilità di lotta in un determinato territorio.

Riprendendo il filo di questa mia riflessione a partire dall’articolo di Davide, credo che – in definitiva – lo scopo principale del compagno fosse quello di portare l’attenzione sulla Sardegna, e sulle questioni ad essa inerenti. La panoramica sull’indipendentismo in altre aree del mondo ritengo che possa deviare l’attenzione dal nocciolo della questione, ovvero da una approfondita riflessione sulla questione sarda, siccome, oltre a sussistere enormi differenze tra tali aree del mondo, la Sardegna stessa possiede delle peculiarità uniche e del tutto «inclassificabili», e lo stesso Davide esprime ciò molto meglio di come potrei fare io.

Sulla Sardegna e sulla realtà sociale sarda nel corso degli ultimi secoli potremmo dire molte cose. Vista l’evidente limitatezza di questo mio contributo, vorrei portare l’attenzione su un paio di questioni di vitale importanza per comprendere il significato e la particolari elementi che caratterizzano la guerra sociale in Sardegna.

Come noto, i sardi sono portatori di una cultura millenaria che affonda le proprie radici almeno tra il 3000 e il 1900 a. C. circa. In questo lasso di tempo nell’isola erano presenti tutta una serie di «culture» (cultura di Ozieri, di Arzachena, di Abealzu, di Monte Claro, di Bonnanaro), come amano definirle gli archeologi e gli storici, che hanno poi contribuito a formare l’antica civiltà sarda, quella che oggi definiamo nuragica. Quest’ultima è stata una tra le più progredite civiltà mediterranee dell’epoca. La lingua sarda, una tra le più antiche parlate mediterranee, affonda le proprie radici in questo periodo storico.

Dunque la cultura sarda è di antica origine ed è ancora radicata nella realtà sociale dell’isola, nonostante i tentativi – in corso da secoli – degli stati preunitari, dello Stato italiano e del capitale di estirpare e sopprimere i tratti che rendono una determinata realtà sociale isolana, in particolare quella barbaricina (corrispondente al territorio delle Barbagie, dell’Ogliastra e del Nuorese), inconciliabile con l’attuale ordine politico ed economico. Tante cose sono state dette e scritte, anche ultimamente, sull’operato del potere in Sardegna. Penso in particolare al militarismo. Io vorrei porre l’accento su un aspetto estremamente importante, spesso trascurato: le origini della lingua sarda. Tale problema è di estrema importanza per capire la pervasività dell’operato del capitale e dello Stato. A partire dagli studi condotti da Max Leopold Wagner, uno studioso tedesco che realizzò il più consistente dizionario etimologico (per l’epoca, si recò continuativamente in Sardegna fino agli anni ’50), la lingua sarda è stata descritta come derivante primariamente dal latino. Ora, il problema è certamente complesso; però, senza dover essere linguisti o glottologi, ci vuole poco per capire che tale affermazione è del tutto falsa. La lingua sarda è ben più antica del latino, quest’ultimo ha certamente dato un contributo alla composizione della lingua sarda odierna, nelle sue innumerevoli varianti, ma non ne è all’origine perché il sardo e il latino hanno, in verità, un medesimo substrato di origine sumerico-accadica (cioè di provenienza mesopotamica). Per quanto concerne la lingua sarda, ad esempio, innumerevoli toponimi paiono intraducibili se si impiega come base il latino, mentre facendo riferimento alle parlate sumerico-accadice, o ugaritiche, divengono di facile comprensione. Lo stesso vale per i cognomi, come per migliaia di altre parole.

Senza volermi dilungare oltre in questo aspetto, che ognuno può benissimo approfondire da sé, volevo porre in risalto questo elemento per poter mettere in luce come, praticamente da secoli, i sardi siano oggetto di una costante distruzione della propria identità culturale, fatta anche di valori irriducibilmente nemici a quelli propri dello Stato (in quanto nella realtà barbaricina, ad esempio, come noto, è sempre stato posto in discussione il monopolio statale della violenza affermando la necessità della vendetta e dell’autodifesa). Per quanto riguarda la lingua sarda, è evidente come tale processo sia stato volto alla “spoliazione” (cioè, soppressione) di una determinata identità in base alle esigenze del capitale. Per cui è stato necessario, nell’ambito di questo processo, definire il sardo come una lingua d’accatto. Dunque, in sostanza, la resistenza dei rivoltosi sardi nei secoli è stata ed è una reazione all’aggressione del potere contro la cultura e le comunità sarde, poiché queste ultime erano incompatibili e inconciliabili con le esigenze del potere stesso.

Prima di salutarvi, vorrei tornare sulla questione dell’indipendentismo e della lotta per la liberazione nazionale. Io, a differenza di alcuni compagni sardi, credo che non abbia alcun significato improntare, in Sardegna, un principio di lotta di liberazione nazionale, perfino una che abbia le caratteristiche più libertarie possibili. Oltre ai problemi di ordine pratico, teorico e metodologico su cui mi sono soffermato sempre in questo contributo, occorre dire che è la stessa realtà sociale sarda ad aver sorpassato – coi fatti – la necessità di una lotta improntata in una simile maniera. Ciò è intuibile, innanzitutto, a partire dal fatto che in Sardegna, a differenza di altri territori (pensiamo, ad esempio, alla Corsica), non si è mai sviluppato un vero e proprio movimento di liberazione nazionale. Perché? Io credo che ciò sia accaduto e accada tutt’oggi perché – anche storicamente – gli sfruttati in Sardegna non hanno mai espresso una necessità organizzativa di questo tipo. Paradossalmente sono i compagni, i nostri compagni anarchici che sostengono la necessità dell’indipendentismo anarchico, a voler leggere la necessità di ciò.

Qui, come intuibile, torniamo al ragionamento accennato precedentemente: il principio accentratore. La lotta dei rivoltosi sardi, dei proletari, dei refrattari che (per fare un esempio) incendiano i veicoli delle forze dell’ordine, come anche quella messa in atto dai pastori nel 2019 (rispetto a quest’ultima faccio riferimento alle sue esperienze più radicali), non si esprime accentrandosi in strutture più o meno di massa, men che meno in fronti di liberazione nazionale, o in organizzazioni simili. Essa è, soprattutto, un conflitto in ordine sparso. E per noi anarchici, quale migliore indicazione da cui partire a riflettere, ad agire? E allora, a che cosa servirebbe organizzarci in strutture come quelle espresse dalle lotte di liberazione nazionale storicamente intese?

F.




Fonte: Fuoridallariserva.noblogs.org